Bandierine gialloblu sulla tomba di Nestor Machno? Nazionalismo, anarchismo e altre idee più o meno confuse sulla Rivoluzione russa.


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Bandierine giallo blu sulla tomba di Nestor Machno?

Nazionalismo, anarchismo e altre idee piu’ o meno confuse sulla rivoluzione russa


Venerdi 14 Giugno dalle 17:00 avremo con noi Giuseppe Aiello che, prendendo spunto dalla ristampa del libro su Machno e da letture di Bulgakov, cerchera’ di tirar fuori dalla nebbia del confusionismo fatti e misfatti della questione ucraina.

Per non arrivare totalmente impreparati, segnaliamo questo link sulla machnovscina e riproponiamo questo articolo di Salvo Vaccaro uscito nel giugno 2022 su Sicilia Libertaria.

Quella che segue è la prefazione di Salvo Vaccaro a “La rivoluzione russa in Ucraina” di Nestor Makhno.

Molto opportunamente arriva la decisione delle Edizioni La Fiaccola di rieditare, a distanza di poco più di cinquant’anni dalla prima apparizione del libro al pubblico italiano e a distanza di cent’anni dalla fine del movimento della Makhnovicina, le memorie di Nestor Makhno, protagonista di uno degli eventi rivoluzionari del XX secolo tra i più trascurati e misconosciuti da parte della storiografia ufficiale.
La rivoluzione russa in Ucraina, scritta da Makhno nel suo esilio in
Francia, vide la luce nel 1927 in lingua francese, ciò di cui l’autore si
rammarica non potendola pubblicare né in patria, né in russo e nemmeno in ucraino, a testimoniare il bilinguismo degli abitanti di quell’area allora interna all’appena deposto regime zarista. L’arco di tempo rivissuto in questo libro dall’autore nel rielaborare ricordi e vicende va dal marzo del 1917 all’aprile del 1918, mentre l’intera parabola del movimento rivoluzionario makhnovista si chiude nel 1921. Quindi un lasso di tempo non idoneo a comprendere per intero la rilevanza di quell’esperienza indissolubilmente
legata a Nestor Makhno. Beninteso, già nel 1923, sempre nell’esilio
francese, Pëtr Archinov, sodale di Makhno, aveva pubblicato a Berlino in russo la sua versione della Istoriya Makhnovskogo Dvizheniya, mentre solo postuma nel 1947 uscirà in Francia La révolution inconnue di Volin (all’anagrafe Vsevolod Michajlovic Eichenbaum).

Makhno non è stato solo un leggendario “leader” anarchico, valoroso combattente di un esercito di contadini-guerriglieri (come potranno esserlo i vietcong negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso) che sconfissero tanto gli eserciti dei nostalgici dello zar, quanto dell’esercito austro-tedesco sul finire della I guerra mondiale, sia l’esercito del costituendo stato ucraino dalla netta impronta nazionalista e antisemita, sia l’Armata Rossa di Trotsky – almeno sino
alla sconfitta finale del 1921, all’indomani dello schiacciamento della rivolta dei marinai a Kronstadt, suggello definitivo che certificò la morte della rivoluzione russa per mano bolscevica.

Makhno è un nome-indice di qualcosa di più importante a un secolo da quegli eventi. È l’indicatore di una rivoluzione contadina in una Russia rurale che affonda le sue radici nella tradizione ottocentesca delle comuni, della eguaglianza, della solidarietà, della condivisione di terre e libertà. Un modello di organizzazione sociale – innovato in Spagna durante la rivoluzione del 1936-37 – i cui tratti libertari e anti-autoritari non potevano essere tollerati da una pratica (e da una ideologia) prettamente accentratrice, verticistica, violenta il cui taglio prospettico politico, tutto teso alla dittatura del proletariato industriale, non poteva affatto comprendere le ragioni di un comunismo contadino dalle forti tinte anarchiche, di cui già parlava Bakunin cinquant’anni prima della rivoluzione russa.

Makhno è inoltre indice di una istanza anarchica che intravede nell’organizzazione la cifra della propria esistenza e della propria funzione sociale, il cui ethos, la cui dirittura morale, la cui esemplarità di leadership valgono solo se in una ottica organizzata e per nulla semplicemente individualista. Naturalmente non è questa la sede idonea per rivisitare l’immenso dibattito sull’organizzazione anarchica in tempi di rivoluzione politica e sociale, e per di più in
momenti di acuta militarizzazione, sorto dalla elaborazione del lutto della sconfitta della rivoluzione russa e della scomparsa di buona parte della presenza anarchica nella Russia prima con Lenin, non appena venne sepolto Kropotkin (ma a ben saper leggere anche prima, lui vivo e onorato,anarchici e anarchiche russe furono
oggetto di violente persecuzioni, di pesanti condanne e di tragici assassinii), e poi con Stalin. La Piattaforma organizzativa venne diffusa nel 1926 da Archinov, Makhno e altri compagni reduci dagli eventi rivoluzionari in Russia, rappresentando un alto momento di confronto/scontro politico tra le file dell’anarchismo europeo e non solo, la cui polemica e i cui esiti non sono liquidabili in due battute – né possono essere inficiate dalla tragica fine di Archinov, formatosi da giovane nel comunismo autoritario, poi autorevole militante nel movimento anarchico e solo nel 1934 ritornato al bolscevismo e, una volta in patria, arrestato e fucilato dal regime staliniano (nel 1937 o nel 1938). In questa sede introduttiva, si può solamente sostenere plausibilmente che le modalità organizzative adottate da Makhno in tempo reale e in presa diretta con gli eventi rivoluzionari e militari del 1917-18 ripercorsi nel libro che il lettore ha in mano sembrano prefigurare uno spazio egualitario e orizzontale dell’organizzazione sociale dei contadini, con deleghe vincolanti, mandati diretti e revocabili, mentre la Piattaforma elaborata successivamente alla
rivoluzione russa, a esperienza della makhnovicina tragicamente ultimata, adotta un modello organizzativo politico interno più omogeneo a una identità e ad una strutturazione forte tipiche di un partito di inizio Novecento. In una battuta, il classico intreccio della relazione tumultuosa tra rivoluzione come insurrezione politica e rivoluzione come cambiamento sociale, ossia fatto sociale totale.Makhno indica inoltre la praticabilità di uno spazio politico che sfugge, da una parte, dalla seduzione nazionalista che divide su altre linee di esclusione i diversi segmenti di una società diseguale e gerarchicamente asimmetrica, ricostituendo confini sociali in base a etnie nazionali per lo più inventate in maniera arbitraria, pescando cinicamente in una storia ricostruita ad arte per far combaciare a posteriori segni e ricorrenze legati artificialmente da un fil rouge ristretto e asfittico come può essere una narrazione ombelicale; dall’altra, da una seduzione tutta politica di un cambiamento dall’alto, giocato quasi sempre militarmente, volto a impossessarsi delle istituzioni anziché abolirle o vanficarle del tutto, pilotato da una ristretta avanguardia – termine che l’autore non disdice usandolo in qualche passaggio meno avvertito dell’usuale – che all’epoca trionfò in quello che Makhno correttamente, a distanza di qualche anno e non dopo decenni di analisi storiografica, denominò nero su bianco “colpo di stato” da parte del partito bolscevico (la presa del Palazzo d’Inverno il 25 ottobre o 7 novembre del 1917,
secondo i calendari adottati).

Peraltro, le conquiste rivoluzionarie che il movimento makhnovista difese consegnandole ai contadini ucraini erano quelle del febbraio-marzo 1917, al momento della abdicazione dello zar Nicola II e della nascita sia del governo Kerenskij che della Rada a Kyiv, ossia il Parlamento nazionale ucraino, entrambi oggetti di opposizione politica e armata da parte della makhnovicina. È questo l’aspetto saliente delle memorie di Makhno, ossia il modo di agire da anarchici in un contesto rivoluzionario in cui sono irrinunciabili il radicamento sociale e territoriale, il costante riferimento alle condizioni umane, l’attenzione alle dinamiche politiche in gioco, la sensibilità di individuare soluzioni collettive ai problemi, la fedeltà a un impianto d’anarchismo sociale da non subordinare al cinismo della politica
del potere. Solo con la forza bruta delle armi l’esperimento sociale della makhnovicina e della rivoluzione contadina in Ucraina poteva essere sconfitto, senza che ciò possa tuttavia tramutarsi in un verdetto storico sul fallimento della rivoluzione, non essendocene state le condizioni di verifica sul campo in merito alla bontà o meno delle soluzioni adottate per restituire dignità, ricchezza prodotta,
bisogni soddisfatti e desideri riconosciuti tanto ai singoli individui quanto alla popolazione nel suo insieme.

E ciò varrà anche per la rivoluzione spagnola, anch’essa sconfitta ma non fallita, un modello potenzialmente esemplare che il marxismo realizzato non poteva tollerare – ieri come oggi, dal Chiapas alla Rojava – pena la perdita di riferimento planetario per i popoli vessati e oppressi sotto tutte le latitudini, che avrebbero potuto individuare invece nell’anarchismo quell’orizzonte di libertà e giustizia sociale perseguito da tempo immemore e per cui vale la pena vivere e lottare.

La rivoluzione russa in Ucraina ritorna disponibile ai lettori di lingua
italiana in una fase tragica per la vitadelle ucraine e degli ucraini, da mesi sotto i bombardamenti, i missili scagliati da lontano, i massacri di massa, l’obbligazione forzata o a cedere arrendendosi alle forze militari di occupazione dello stato della Federazione Russa (e dei suoi mercenari), oppure a lasciare tutto e fuggire in esilio senza scelta, invocando la (schizofrenica) solidarietà europea.
Occorre resistere, a mio avviso, alla facile tentazione di leggere una
esperienza di cent’anni addietro come uno strumento utile per decifrare il presente e offrire chiavi di lettura e di azione per noi contemporanei. Troppa distanza di tempo: panorama politico e istituzionale, verticale e orizzontale, radicalmente mutato; trasformazioni geopolitiche inimmaginabili; poste politiche
di egemonia planetaria diverse da quelle in palio nel corso della I guerra mondiale; immaginari socio-politici differenti; tecnologie di armamenti ben diverse per potenza e sofisticazione, nonché per tipologie del loro uso; tecniche e modalità comunicative inedite rispetto al secolo passato. Ma in primo luogo, l’assenza di un attuale contesto rivoluzionario impedisce un parallelismo impensabile con il movimento makhnovista.

Indubbiamente, le autocrazie di ieri e di oggi si assomigliano nella
discontinuità, Makhno lo sapeva bene essendosi scagliato sia contro
quella dei nuovi padroni leniniani, sia contro gli aspiranti tali di fede
nazionalista (e antisemita). E ciò senza negare l’esistenza indipendente dell’Ucraina come spazio geo-sociale e come identità culturale e linguistica, tanto era (ed è tuttora) diffuso il bilinguismo in quell’area. Il suo netto e deciso internazionalismo – tipico segno
anarchico – in epoca di guerre nazionali e nazionaliste ne è una vivida testimonianza di cui assumersi l’onere di una fattiva eredità contemporanea.

Salvo Vaccaro