Sarebbe interessante abbozzare delle riflessioni sulla tre giorni. Provo a dare un piccolo contributo sperando che possa uscirne fuori un dialogo.
Per la prima volta dopo tanti anni sono tornato a parlare apertamente di quello che mi sta a cuore e il non trovarmi di fronte a un muro mi ha riempito di gioia. Se da un lato l’essere in un luogo – Urupia – che fa dell’autogestione il proprio pane & tarallo quotidiano ha reso il tutto piu’ semplice, un altro elemento fondamentale che ha contribuito alla riuscita della comunicazione e’ stato l’atteggiamento di curiosita’ e disposizione all’ascolto che, di questi tempi, sono grasso che lubrifica quel meccanismo poco oliato dell’organizzazione.
A volte ci ritraiamo dall’utilizzare parole per via del significato che hanno preso, quella “risemantizzazione” ad opera del sistema di pensiero dominante che oggi viene chiamata cancel culture, un esercizio continuo di sovrascrittura che procede, a ritroso, nel tempo. E’ palese che sia quantomeno necessario dare uno stop a questo delirio portato avanti da esperti di comunicazione e mass merda, pena l’incomprensione e l’incomunicabilita’ totale.
E per ripartire verso un nuovo orizzonte la prima parola da abolire, che nella nostra lingua non dovra’ avere piu’ spazio ne’ importanza, e’ certamente quel sinonimo internazionale di sofferenza & travaglio che va sotto il nome di lavoro.
Questo era in estrema sintesi il succo del mio intervento ad urupia, ovvero il tentativo di ridefinire un terreno su cui poter operare senza incappare nei lacci della riproduzione dell’esistente, il tutto mediante gli strumenti legali che ‘o sistema nudo e crudo mette a disposizione di chi non sia sprovvisto di volonta’, magari mista ad un pizzico di spregiudicatezza che non guasta mai.
Smascherare il ruolo contenitivo del paraStato e della burocrazia ci porta in ultima istanza a scoprire di essere noi, per noi stessi, i primi agenti della sudditanza (quel “nemico interno” piu’ forte della nostra volonta’) : le pratiche che codificano la norma sociale che vengono attribuite allo Stato e alla legge sono da ascrivere letteralmente a sindacati, patronati, e disciplinatori della normalizzazione extra-legale, al fine di poter individuare gli agenti attivi nella pratica infausta della sottomissione volontaria.
La Burocrazia rappresenta il potere extra-statale ed extra-legale dell’ufficio.
In estrema sintesi, l’aderire alla consuetudine extra-legale e’ il risultato di decenni di rincoglionimento, quello si’, progressivo, ad opera dei sostenitori della necessita’ del lavoro salariato e della conseguente proletarizzazione dell’esistente… da una lettura mal compresa di marx fatta propria dai falsi critici dell’esistente.
Si e’ parlato di Gentrificazione e vorrei fare una piccola digressione sulle gerarchie sociali.
Gentry in inglese indica l’aristocrazia, la classe alta, la piccola nobilta’. Quel qualcosa a cui tenderebbe una parte borghese, nella dinamica di classe piu’ terra terra che la storiografia possa mai partorire. C’e’ poi l’Imborghesimento, l’assumere posture borghesi da parte di chi borghese non e’; e poi esiste anche quell’aspirazione dileggiata come “piccolo borghese” che vede nell’emancipazione dal ruolo di classe subordinata il ricalcare le orme della classe immediatamente superiore in questa supposta gerarchia. Tutto questo beninteso se vogliamo prendere per buona la classificazione-metodologia di analisi storica che ci ha dato il marxismo.
Abbiamo poi la distruzione della classe media, e una sotto-proletarizzazione che avanza a grandi passi rendendo il disastro ogni giorno che passa piu’ evidente e prossimo. La guerra tra poveri dilaga in una reazione a catena micidiale. Gli operai, un tempo visti come membri della classe eletta a demiurgo della rivoluzione sociale, votano lega o meloni ed e’ gia’ dagli anni ‘70 che gli hanno appioppato la nozione di “aristocrazia operaia” che peraltro si tengono ben stretta. I colletti bianchi del cosiddetto terziario avanzato sono invece spremuti come dei limoni e non possono neanche immaginare di uscire dal ruolo in cui sono relegati, quello della produzione immateriale, limitandosi a tirare a campare con stipendi da fame; gli immigrati, sottoproletari, riforniscono di derrate alimentari le grosse catene di distribuzione e la produzione di cibo a basso costo per i proletari difficilmente potrebbe dare salari dignitosi neanche nel migliore dei mondi possibili.
Chi timbra quotidianamente il cartellino della propria sottomissione e’ insomma ben consapevole del proprio essere sfruttato. Ma tutto questo, piu’ che generare coscienza di classe, genera risentimento verso chi non ha accettato quel marchio della bestia chiamato contratto di lavoro, i famosi “lavoratori autonomi”, che vengono invariabilmente inquadrati dai burokrati come privilegiati, sfruttatori, furbetti o “evasori fiscali”, per poi gridare allo scandalo quando e’ l’istat stesso a ridimensionare il concetto di evasione fiscale da parte degli stessi e ad attribuirlo, piuttosto, a multinazionali e grande industria come recentemente accaduto.
E’ qui che entra in gioco la nostra scommessa. Mostrare che gli unici privilegi reali che permettono di ribaltare lo stato di cose presenti ce li portiamo dentro la testa e sono il frutto del ragionamento, dell’abitudine a non delegare e – soprattutto – a non obbedire ad quel ricatto extra-legale introdotto a norma sociale.
Traendo spunto dagli Area, se “L’Estetica del Lavoro e’ lo spettacolo della merce umana” come avevano brillantemente esplicitato, non abbiamo evidentemente piu’ bisogno di un tale feticcio. Forse arrivati a 500 anni dal “trattato sulla servitu’ volontaria” de La Boetie’ e’ giunto il tempo.